sabato 10 marzo 2012

Morris Rosenfeld, il "poeta del ghetto"

Dopo l’assassinio dello zar Alessandro II (1881), in Russia furono promulgate le leggi antiebraiche. Nei decenni successivi si verificò una vasta emigrazione degli Ebrei di Russia verso gli Stati Uniti d’America. Si formò così lo stanziamento di Ebrei che, dopo la distruzione delle Comunità europee, costituisce oggi il più grande insediamento della Diaspora ebraica nel mondo. Morris Rosenfeld (1862 – 1923), il “poeta del ghetto” cantò le illusioni e le crudeli storie di sfruttamento dell’emigazione degli Ebrei di quegli anni. Lèon Bloy tracciò uno straordinario profilo del poeta nel pamphlet Il sangue del povero, pubblicato in Italia da SE Studio Editoriale a cura di Giancarlo Pavanello. Riproponiamo il vibrante capitolo in questo spazio, con la speranza di contribuire a far conoscere uno dei più grandi poeti della Diaspora, tanto sublime quanto poco conosciuto nel nostro paese.

Morris Rosenfeld, l’avvocato del Santo Sepolcro
di LÉON BLOY

La storia degli Ebrei sbarra la storia
del genere umano, come una diga

sbarra un fiume, per innalzarne il livello.
Léon Bloy

Sì! L’avvocato del Santo Sepolcro! E si tratta di un Ebreo, di un poeta ebreo del tutto straordinario, che non si è mai convertito. Ma fu Ebreo nel profondo e, di conseguenza, il più grande poeta che abbia mai avuto il Povero, e questo gli permise di giungere vicinissimo alla Tomba di Gesù Cristo, infinitamente più vicino alla maggior parte dei cristiani.
Si sa che Goffredo di Buglione non accettò di essere re di Gerusalemme, ma soltanto l’Avvocato o il Difensore del santo Sepolcro, «non volendo», dicono le Assises, « portare la corona d’oro dove il Re dei re portò una corona di spine ». Per il poeta Morris Rosenfeld non si può parlare né di regalità né di corona d’oro, ma il povero non ebbe mai un simile difensore. La Città santa dei suoi padri, da lui conquistata, è la poesia stessa, che è la Gerusalemme dei poveri e dei sofferenti.
Poeta dei miseri, misero lui stesso, si esprime nella lingua dei miseri. « Rovinati e sfiniti dal lungo esilio, cacciati e dispersi in paesi stranieri, abbiamo perduto la nostra lingua sacra e la nostra dignità di un tempo e, oggi, dobbiamo accontentarci dei sospiri esalati da un dialetto povero e derisorio, di cui ci siamo impadroniti trascinandoci da un popolo all’altro ». Ma i poeti fanno quello che vogliono. Questo gergo cosmopolita formato con i brandelli di tutte le lingue ha saputo trasformarlo in musica d’arpa che piange.
Morris (Mosè-Giacobbe) Rosenfeld è nato nella Polonia russa. Laggiù, sulla riva di un fiume ora placido e ora furioso, suo padre, un pescatore poverissimo, gli raccontava storie di ribellioni e di sofferenze per nobilitare il suo c uore. «Non sempre fummo un popolo in grado soltanto di piangere…». Chiamato a perpetuare la stirpe dei sofferenti e a essere ancora più povero di quanto lo fossero stati i suoi avi, fu consolato per tutta la vita dal ricordo della sua umile infanzia trascorsa nelle vicinanze di un fiume, delle colline e delle foreste.

Il sole tramonta dietro le montagne… L’acqua scorre, scorre sempre e mormora una lingua che nessuno conosce. Una barca scivola in lontananza, senza vogatore, senza timone; si direbbe che sia spinta da demoni. In questa barca c’è un bambino che piange… Lunghi riccioli dorati ricadono sulle sue spalle, e il povero piccolo guarda sospirando… E la barca continua a scivolare. Agitando un fazzoletto bianco, Egli mi saluta da lontano, mi dice addio, quel povero, meraviglioso bambino. E il mio cuore comincia a sussultare. Si direbbe che qualcosa pianga… Ditemi, cos’è dunque? Oh, questo bambino superbo io lo conosco. Mio Dio, è la mia infanzia che mi lascia!

Limpida sorgente che ben presto si trasforma in un torrente di lacrime amare. Ma quell’uomo povero non è un ribelle. La sua natura non lo porta a gridare vendetta: Vero Ebreo Lamentatore, sa soltanto piangere sui suoi sciagurati fratelli più che su se stesso. Ma le sue lacrime hanno una forza d’invocazione più terribile degli scatenamenti della disperazione. Non so davvero se in poesia esista qualcosa di più angosciante dei versi che hanno per titolo A una nuvola:

Fermati, nuvola selvaggia, fermati.
E dimmi da dove vieni e dove vai.

Perché sei così cupa, greve e nera?
Ho paura di te, tu spaventi l’anima mia.
. . .
Dimmi: ti caccia qui l’orribile vento

Della Russia nera?
. . .
Forse con te porti
La vecchia pazienza, che presto

Esploderà, sanguinosa e selvaggia,
. . .
Mentre tenevo la faccia rivolta verso il cielo,

D’un tratto dalla nuvola cadde una goccia;
Una goccia amara cadde nella mia bocca, -
Amara, più amara della bile.
E mi sembra, fratelli – anzi, ne sono sicuro,
Oh, sì, sì, mi sembra una lacrima ebraica, una lacrima di sangue,
Una lacrima ebraica, - che spavento!

Mi ha strappato l’anima e perdo la testa.
Una lacrima ebraica! – l’ho riconosciuta subito.
Ma è un misto di fiele, di cervello e di sangue.
Una lacrima ebraica! – l’ho riconosciuta subito.
Sa di persecuzione, di sventure e di pogrom.
Oh, una lacrima ebraica, sento in questo odore

L’orribile bestemmia di duemila anni…
La lacrima ebraica… Ora capisco
Di che nuvola si trattava

Quest’uomo schiacciato nel fondo delle cripte, sembra aver avvertito più di ogni altro la tristezza spaventosa e soprannaturale di quella Settimana Santa, che dura da duemila anni e che è tutta la storia degli Ebrei dalla Vendizione del loro Primogenito. Ma, più di ogni altro, ha saputo cogliere la bellezza. Alcune sue poesie sono come echi in un sepolcro della grandiosa liturgia delle Tenebre, interamente attinta dal Libro divino che gli Ebrei portano in ogni parte della terra, cercando di leggere attra verso lo scuro tessuto del loro Velamen.

Un libro vecchio e strappato. La copertina macchiata di sangue e di lacrime. Lo conoscete questo libro? Certo che lo conoscete, questo libro, non ho dubbi. Il più santo dei libri santi. Abbiamo già dato molto per questo povero libro…

E questo grido sublime di fronte alla scena degli Ebrei emigranti e dei loro miserabili bagagli sulle panchine di New York:

Con loro, in quei fagotti, - vedete? –
C’è il tesoro del mondo, - la loro Thora! –
Come potete dire che è povera una simile nazione?
Un popolo che attraversa la notte e le tombe;
Che sa passare tra l’orrore, il fuoco e la morte,
Per salvare ciò che gli è sacro e caro?

Un popolo che sa resistere a tante sventure;
Che sa soffrire tanto e dare il proprio sangue;
Che non teme niente e nessuno;
Che rischia la propria vita per pochi poveri figli.
Un popolo che continua a bagnarsi nelle lacrime;
Che ognuno colpisce e tortura con gioia;
Che vagabonda da millenni nei deserti,
E non ha ancora perduto il coraggio?
Per pronunciare il nome di un simile popolo,

Dovete pulirvi le labbra. – In ginocchio,
o nazioni!
Chi parla così è, agli occhi del mondo, al di sotto di un verme. Ma ha infinitamente ragione e Dio stesso non avrebbe saputo parlare meglio. Gli Ebrei sono i fratelli maggiori di tutti e quando tutto avrà un ordine, i loro più superbi padroni si riterranno onorati di leccare i loro piedi di vagabondi. Poiché tutto è stato loro promesso e, nell’attesa, fanno penitenza per la terra. Il diritto di primogenitura non può essere annullato da un castigo, per quanto rigoroso esso sia, e la parola d’onore di Dio è immutabile, giacchè « i suoi doni e la sua chiamata sono senza pentimento ». Chi ha detto questo è il più grande fra gli Ebrei convertiti, e i cristiani implacabili che pretendono di rendere eterne le rappresaglie del Crucifigatur dovrebbero ricordarsene. « Il loro delitto » dice ancora san Paolo « è stato la salvezza delle nazioni ». Che popolo inaudito è mai questo, al quale Dio chiede il permesso di salvare il genere umano, dopo avergli chiesto la sua carne per soffrire meglio? Ciò significa che la sua Passione non lo avrebbe soddisfatto, se non gli fosse stata inflitta dal suo prediletto, e qualunque altro sangue diverso da quello proveniente da Abramo non sarebbe stato efficace per lavare i peccati del mondo?
Certo, Rosenfeld, che era soltanto un operaio molto ignorante, non doveva aver letto san Paolo, che gli Ebrei non leggono affatto. Ma il suo genio di poeta e il senso profondo della sua Razza gli facevano intuire queste cose. Appena cominciò a cantare, il suo posto – l’ho già detto all’inizio – fu alla destra del Sepolcro di Gesù Cristo. Senza saperlo, ribadì le Affermazioni imperiture dell’Apostolo delle genti e, non essendo stato poeta se non per i poveri, si trovò – nel senso più misterioso – a essere l’Avvocato del Santo Sepolcro, re senza corona e senza mantello della poesia di coloro che piangono, sentinella sperduta presso la Tomba del Dio dei poveri immolato dai suoi antenati. Allora, per la sola forza delle leggi adorabili, il suo giudaismo fu superato, inondato da ogni lato dal sentimento di una fratellanza universale con i poveri e i sofferenti di tutta la terra.
Il suo perpetuo vagabondaggio, veramente ebraico, lo predisponeva a questo.
Sotto il regno di Alessandro III e del suo ministro Ignatiev, la situazione degli Ebrei in Russia era ormai fatta insostenibile. Oltraggiati, perseguitati, massacrati, quell’impero selvaggio era diventato un inferno per loro. Rosenfeld prese il bordone della vita errante e partì.
« Per quattro anni » scrive uno dei suoi ammiratori « i venti lo sospinsero da un luogo all’altro; per quattro anni, ogni ondata della miseria lo inghiottiva e lo rigettava per poi lasciarlo in balìa di un’altra ondata; per quattro anni fu scosso da un specie di febbre che esiste solo nel popolo ebraico, la ricerca di un focolare. Questa spietata febbre che, da venti secoli, non dà tregua ai figli di Israele; questa vita da cane vagabondo, senza diritti e senza stima, senza nazione e senza speranza, camminando, camminando sempre, dall’Oriente all’Occidente e dal Nord al Sud, varcando monti e attraversando Oceani, pregando e gridando, piangendo e lottando, questa vita ignobile e iniqua, si può ben dire che il nostro l’abbia conosciuta ».
Nella sua ode In mezzo all’Oceano, due Ebrei, ai quali è stato rifiutato l’ingresso in America, ritornano in Europa:

Chi siete, sventurati, ditemi,
Voi che potete imporre il silenzio al più terribile sconforto,
Voi che non avete né singhiozzi né lacrime
Perfino presso la porta della spaventosa Morte?

. . .
« Avevamo un alloggio e ce l’hanno distrutto,
Hanno bruciati quanto avevamo di più sacro;
Dei nostri più cari e dei migliori hanno fatto mucchi di ossa.
Gli altri sono stati deportati, con le mani legate.
. . .
Siamo Ebrei, Ebrei diseredati,
Senza amici e senza gioia, senza speranza di felicità.

. . .
Siamo miserabili simili a pietre,
La terra ingrata rifiuta di offrirci un asilo.
. . .
Sia che il vento soffi e imperversi, e urli con furore,
Sia che ribollisca, schiumi e arroventi l’abisso,
Qualsiasi cosa accada, noi siamo Ebrei abbandonati ».

Se gli Ebrei sono degni di un tale poeta, gli perdoneranno di aver pianto spesso su altri che non erano Ebrei. Al di là dell’immane sventura dell’antico popolo di Geova, l’anima universale di Rosenfeld scopriva altre sventure e non nascondeva di averne il cuore straziato. La sua situazione era ben adatta per conoscerle! Era stato visto lavorare tra i più poveri operai di tutte le nazioni, ad Amsterdam, a Londra, a New York dove, per dieci anni, non ebbe altro mezzo per vivere che il triste mestiere di scalpellini di fabbrica. I suoi versi sull’infame schiavitù delle fabbriche sono forse i più dolorosi.
Abbruttito dal lavoro della giornata, l’operaio ritorna a casa. Lo attendono la moglie e il figlio:

Il lavoro mi caccia presto da casa
E non mi lascia tornare che tardi.
Ahimè, mi è estranea la mia stessa carne!
Estraneo lo sguardo di mio figlio!


La moglie gli parla del loro bambino. È buono e per tutto il giorno non fa che domandare del padre. Ma ora dorme. Il pover’uomo si avvicina alla culla del figlio. Gli mostra un soldino e gli parla per svegliarlo, per mostrarsi a lui.

Un sogno fa muovere le sue piccole labbra.
« Oh, dov’è mai, dov’è mai il mio papà? ».
Resto lì, pieno d’angoscia, di dolore
E d’amarezza, e penso:
« Quando ti sveglierai, domani, figlio mio,
più non mi troverai ».


Un giorno, finalmente, il poeta, essendo stato notato, lasciò la fabbrica e certi strani protettori gli offrirono un mestiere ancora peggiore, quello del giornalista, che gli divenne quasi subito intollerabile: « - Oh, riapritemi le porte della fabbrica. Sopporterò tutto. – Succhiami il sangue, fabbrica, oh, succhiami il sangue! Piangerò sottovoce. Farò il mio duro lavoro. Lo farò senza protestare. – Posso farmi pagare per i miei scalpelli. Ma la mia penna deve appartenere a me solo ».
La sua penna! È questa la parola che bisogna scrivere? In ogni istante lo scalpellino Rosenfeld mi fa pensare quegli intagliatori d’immagini di tanto tempo fa, a quegli artisti barbari, puerili e sublimi, che non conoscevano nessuna scienza e nessuna arte, perché non avevano mai avuto lezioni da altri maestri che non fossero la loro sofferenza, e lavoravano come potevano, con poveri strumenti, sotto le alte finestre di un immenso cantiere di compassione.
Sia che canti la pena del Popolo errante, o i tormenti d’inferno della fabbrica omicida, o il lamento così doloroso dell’infelice sedotta (« Ricordi la sera che mi hai disonorata? ») oppure l’eterna bellezza della natura gentile e terribile, sempre lo vedo mentre scolpisce, con pena, un legno durissimo, forse inadatto per questo, con un umile coltello che egli affila venti volte al giorno sulla mola inconsumabile dei cuori senza pietà. E le cose non procedono sempre come lui vorrebbe. Quel legno è simile al ferro e lo strumento talvolta si intacca su qualche nodo invincibile e imprevisto che turba la composizione. E inoltre l’ingenuo artista, privo di metodo, non sempre sa come concludere questa o quella figura iniziata. Allora il coltello stride con furore e lui sa trasformare le difficoltà in invenzioni che fanno fremere.
Nonostante la complessità della sua opera, si è detto tutto di Rosenfeld quando lo si è definito il poeta dei proletari. E lo è più di chiunque altro, essendo Ebreo e l’Ebreo essendo essenzialmente proletario. Ma il proletario – come le lacrime – appartiene a ogni popolo e a ogni tempo. Ma le lacrime ebraiche sono più pesanti. Hanno il peso di innumerevoli secoli. Quelle del nostro poeta sono state generosamente versate su un gran numero di infelici che non appartenevano alla sua Razza, e ora ecco queste lacrime preziose sulla bilancia del Giudice dei dolori umani che non guarda in faccia né i popoli né gli individui.
Quando il Padre vorrà che il Primogenito riassuma il proprio posto, penso che la notte più splendida illuminerà il banchetto, mentre la dolce falce di luna indicherà ove si trova il Santo Sepolcro e le lacrime di tutti i poveri splenderanno indistintamente, fantasticamente, nel profondo dei cieli!

Il Muro del Pianto - Gerusalemme
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